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Off the green. Note sul concorso di idee per Bari Centrale – Una riflessione su Zeroundicipiù

Questo testo è comparso per la prima volta su 011+, qui. Lo riportiamo… a casa.

Gli esiti di un concorso di idee, come le biennali, sono sempre sbagliati. Partecipare a un concorso di questo tipo significa, cioè, esporsi alle puntuali, spietate ed estemporanee critiche di esperti e profani del tema del momento; ed è giusto che sia così. È giusto insomma che un concorso di idee generi tempesta di idee, e quelle vengono un po’ a tutti, buone o meno buone, opportune o fuori luogo.

Ecco perché stupisce che, nel paese degli architetti, un concorso di idee importante come quello chiusosi a Bari a fine aprile [2013] sia stato pensato aperto a soli 10 studi di architettura selezionati per curriculum, come se fosse solo questo a conferire acume e innovatività alle proposte. Peraltro, un bando che esplicitamente richiedeva “visioni” più che interventi di dettaglio sarebbe dovuto – a nostro modesto avviso – essere dotato di una struttura aperta, proprio per poter giovare di quel connubio di visionarietà e pragmatismo tipico della gioventù, o semplicemente dei tanti che esercitano la professione con il sano cinismo di chi non appartiene al gotha. Entrambe queste condizioni non sempre coincidono con studi dai curricula lunghi abbastanza da competere a livello internazionale. Ma d’altra parte, quand’anche così fosse, è la restrizione a un numero così basso di proponenti a parerci in sé un errore concettuale, perché se c’è un caso in cui uno sbarramento all’entrata è controproducente, è proprio quello del concorso di idee. Non solo: il meccanismo di premio agli studi selezionati, conferito a prescindere dalla soluzione proposta, rischia addirittura di comprometterne l’efficacia, e va nella direzione opposta rispetto a quella che gratifica la qualità innovativa delle visioni.

In ogni caso, a vincere la competizione è forse l’unico progetto a cui va riconosciuto il merito di comunicare un’idea complessiva unitaria e facilmente trasmissibile. Riconnettere due parti di città tagliate da un fascio ferroviario senza interrarlo è possibile: basta coprirlo, magari con quel parco di cui la città ha sempre lamentato la mancanza.

Planimetria generale del masterplan ©Massimiliano e Doriana Fuksas

La semplicità dell’idea, tuttavia, è così disarmante che non può non lasciare qualche sospetto di sottile demagogia, soprattutto quando si osserva che (un po’ forse per eccessivo pudore, ma senz’altro in gran parte per rispondere alle esigenze di sostenibilità economica richieste dal bando) nessuno degli altri raggruppamenti in gara ha pensato a una copertura totale del fascio, profondo in media 120 metri lungo più di 3 chilometri. Tutti, infatti, si sono barcamenati nel tentativo di oltrepassarlo puntualmente, attraverso interventi meno invasivi per il tessuto urbano (e per il portafoglio pubblico), con l’evidente effetto di aver costruito proposte più disomogenee, ma con il vantaggio di essersi dovuti, in un modo o nell’altro, interrogare almeno un poco sul funzionamento strategico della città.

E difatti la carenza più evidente di approfondimento che è il caso di muovere al progetto di Fuksas è la sua genericità. Non può non piacere il parco lineare da 35 ettari, ma come può un intervento così esteso, presentato non come puro “polmone” urbano ma come soluzione infrastrutturale, peccare di una tale semplicistica isotropia? Il grande dispositivo urbano attraversa ben 12 quartieri con risorse, necessità e problemi diversissimi tra loro, ma resta sempre uguale a sé, sostanzialmente insensibile alle loro varietà morfologiche, funzionali e sociali. Nei disegni colpisce, in altri termini, l’evidenza di una mancanza di visioni architettoniche al di là delle tiepide proposte per la Caserma Rossani (di cui, peraltro, è notizia freschissima l’occupazione da parte movimento cittadino di attivisti che intende risolvere il trentennale problema della sua mancata riqualificazione). Proposte che tuttavia fanno caso a sé, incidendo poco nelle dinamiche della città nel suo complesso. Quello di una visione urbana contemporanea è un problema non di minor conto rispetto alla endemica mancanza di verde comune a molte città del Sud Italia. E infatti, se da un lato l’idea del parco è potente tanto come concept quanto nel raccogliere consenso pubblico, dall’altro la contropartita architettonica messa in campo non osa proporre più che una generica offerta para-residenziale da città generica, contraria anche alla richiesta del bando di costruire un innesto lungo tutta l’estensione del fascio di binari, che determinasse un balzo in avanti nella dotazione e nel volto dell’architettura pubblica della città.

Rendering della proposta vincitrice per la Caserma Rossani. ©Massimiliano e Doriana Fuksas

Insomma, se agli altri progetti può contestarsi una timidezza complessiva, al vincitore è senz’altro da opporsi una serie di debolezze specifiche, sacrificate in nome di una leggibilità nell’insieme che forse, alla scala vasta dell’urbano, equivale a un equivoco di fondo. Un equivoco non di natura architettonica, bensì politica: laddove manca un disegno chiaro e condiviso in merito a un grande intervento come questo, l’architetto – per quanto celebre – non può essere chiamato a risolvere un problema la cui complessità strategica e sociale non è riassumibile in alcun disegno, neanche se a fondo verde. Fuksas vince, insomma, di certo con l’unica visione politicamente chiara; ma è una vittoria che racconta soprattutto di una irrisolutezza amministrativa figlia di una miopia del dibattito politico. Una vittoria che concede troppo poche ragioni per festeggiare.

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